anno I / n. 209
Press-IN
INCLUSIONE - INTEGRAZIONE - INFORMAZIONE
Rassegna stampa quotidiana sul mondo delle disabilità



Il Cittadino del 14-02-2009

I disabili sono la terza nazione del mondo

La pubblicazione, edita da Feltrinelli, sta riscuotendo un notevole successo: verrà presentata il 2o febbraio .
L’handicap tra pregiudizio e realtà, un libro del lodigiano Matteo Schianchi

LODI. Matteo Schianchi ha curato, con saggi molto apprezzati, i libri di storia editi in questi anni dal Comune di Lodi su iniziativa del consiglio comunale della città. Potrebbe stupire la pubblicazione del suo recentissimo volume - che di storia non è - intitolato “La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà”, Feltrinelli editore. Il libro, come specifichiamo nel riquadro, verrà presentato a Lodi venerdì 20 febbraio alle ore 21 presso il Teatrino dell’Informagiovani di via Paolo Gorini.Schianchi, “La terza nazione del mondo”, perché questo titolo al suo libro?«Sono 650 milioni le persone disabili in tutto il mondo, se messe insieme andrebbero a formare la terza nazione del pianeta per popolazione dopo Cina e India. Con questo titolo intendo mettere in luce che la disabilità è un problema di grande entità che coinvolge la nostra società. In Italia i disabili sono circa sei milioni e a questi dobbiamo aggiungere i familiari, gli operatori, il mondo del volontariato». E quindi?«Non possiamo più nascondercelo, la disabilità è un vero problema di massa che coinvolge direttamente e indirettamente milioni di persone a cui è necessario dare risposte adeguate.Come nasce questo libro?«Dalla mia esperienza diretta di persona disabile».È un testo autobiografico?«No. La mia è una riflessione sociale e culturale attorno alle questioni dell’handicap. Si tratta di un approccio nuovo che nasce sia dalla mia esperienza sia da alcune analisi. Il mondo dell’handicap è sempre circondato da urgenze: tantissime cose da fare per risolvere i problemi quotidiani di molti disabili, la questione delle barriere architettoniche, dell’inclusione nel mondo del lavoro e delle relazioni sociali».E lei cosa ne pensa?«L’integrazione dei disabili è ostacolata non solo da leggi e dispositivi parzialmente applicati o di corto respiro. C’è anche un senso comune, uno sguardo collettivo che stigmatizza i disabili, chiude loro le porte ancor prima delle barriere architettoniche. Noi tutti rifiutiamo l’handicap e consideriamo i disabili esseri inferiori». Affronta queste cose nel libro?«Nel libro sono andato alla ricerca delle origini culturali e psicologiche di questo sguardo e ho denunciato la mancanza di linguaggi e conoscenze adeguati a costruire una cultura dell’handicap e dell’inclusione dei disabili».Quindi le interessa un approccio culturale all’handicap?«Sì, ma non si tratta di un’operazione intellettuale fine a se stessa: il modo attraverso cui guardiamo la disabilità ha ricadute concrete nella realtà quotidiana delle persone, qui si gettano le basi per la costruzione di una cultura dell’handicap capace di creare integrazione. In linea con questi orientamenti, sto lavorando ad una ricerca storica e sociologica sulla disabilità in Italia, realizzata per la Scuola di Studi Superiori di Scienze sociali di Parigi». A chi si rivolge il libro?«La mia ambizione è che il libro si rivolga ad un pubblico ampio. Per questo è stato scritto con un linguaggio divulgativo e, oserei dire, “accessibile” a tutti. Vorrei si rivolgesse alle persone disabili e alle loro famiglie, ma anche a chi si occupa di handicap nelle scuole, nelle associazioni. Ma la mia grande sfida è che venga letto da persone “normali”».Perché?«Mi piacerebbe far capire a tutti che l’handicap è spesso un prodotto della nostra società. Credo sia un libro per tutti, non solo perché le fonti della disabilità attraversano le nostre esistenze ma perché la cultura stigmatizzante e negativa che abbiamo sulla disabilità è purtroppo patrimonio di tutti».Proprio di tutti?«Siamo collettivamente responsabili di quel senso comune che considera il disabile un poverino e un soggetto senza una vita completa. Dico sempre che non c’è handicap senza sguardo sull’handicap. Solo capendo da dove viene questo sguardo è possibile superarlo». Cosa si dovrebbe fare?«Anzitutto radicali forme di prevenzione per diminuire le fonti dell’handicap, incidenti sul lavoro e sulla strada in testa. Passaggio da politiche assistenzialiste a politiche che mettono al centro i soggetti e le loro relazioni. Fornitura di servizi, prestazioni e ausili adeguati alle esigenze delle persone disabili e delle loro famiglie».Un programma ambizioso.«Aspetti, non ho finito. Occorre aggiungere il sostegno psicologico e sociale per i disabili e il mondo circostante: l’handicap è un trauma che sconvolge radicalmente l’esistenza dei soggetti, è necessario avere gli strumenti per affrontare questo trauma e per poter vivere pienamente anche con un handicap o un familiare disabile».È vero.«Bisogna agire sull’eliminazione delle barriere architettoniche nei luoghi pubblici, privati e nei mezzi di trasporto. È necessaria un’inclusione reale nelle dimensioni del lavoro e della scuola. Serve la costruzione di saperi scientifici e per la formulazione di competenze e linguaggi capaci di costruire una cultura dell’handicap. Infine, ma non per questo meno importante, c’è un’altra cosa».Quale?«La necessità di ratificare la Convenzione dell’Onu per le persone con disabilità. Le istituzioni italiane sembrano apprestarsi a farlo, ma attenzione, non si tratta solo di mettere una firma».Perché?«Questo documento, che ad oggi è il più illuminante sulla disabilità, implica attuazioni concrete e tangibili, possibili solo con progetti e programmi radicalmente nuovi».Nel nostro territorio com’è la situazione?«A Lodi e in provincia mi sembra ci sia una sensibilità diffusa da parte delle istituzioni, c’è un vivace tessuto di associazioni e di soggetti nel mondo del volontariato e della scuola coinvolti dai temi dell’handicap». Lo dice per tenersi buoni i politici?«No, Lodi è una città particolarmente vivibile, le istituzioni sono attente e sembrano prestare un interesse crescente anche a simili questioni. Tutto ciò mi sembra poter rappresentare un buon punto di partenza». Per andare dove?«Lodi e il suo territorio potrebbero diventare un “laboratorio” a livello nazionale, una città completamente accessibile e aperta ad una cultura dell’handicap».Per arrivarci lei cosa suggerirebbe?«Questo deve essere un obiettivo dichiarato, preciso, governato dalle istituzioni politiche, socio-sanitarie e attorno a cui prevedere un coinvolgimento organico e di ampio respiro del mondo della scuola e delle associazioni». Come è stato accolto il suo libro?«Ho ricevuto recensioni lusinghiere da alcune testate (Avvenire, Vita, Il Giornale, Corriere della sera), che lo hanno considerato un “testo fondamentale” per affrontare la disabilità. Il libro ha suscitato attenzioni di molti “normali”, che mediamente non si sentono coinvolti dal tema, ma che hanno capito invece che è una questione che riguarda tutti». Perché è piaciuto?«È piaciuto il fatto che non ci fossero toni pietistici, sensazionalisti o da effimeri buoni sentimenti a cui siamo spesso abituati quando si affronta la questione».E i disabili?«Anche molti disabili lo hanno apprezzato, quasi si fossero riconosciuti in quella “terza nazione”, che ben chiarisce non solo l’impatto dell’handicap nella nostra società, ma anche l’esigenza di prestare attenzione alle necessità e alla dignità di milioni di persone e di famiglie, in Italia e nel mondo». Non abbiamo detto ancora nulla sulla scuola.«Credo che la scuola abbia un potere decisivo sia nell’integrazione di ragazzi disabili, sia nell’essere il primo luogo in cui fornire a tutti una cultura dell’handicap».Onore alla scuola, quindi.«Senza questo intervento iniziale e decisivo della scuola, in tutti i suoi ordini, l’integrazione delle persone disabili risulta ancora più difficile».