Articolo apparso su Diagnosi & terapia (rivista per farmacisti) n. 07/07 a fima del dott. Umberto Formica, è completato anche da foto. Vale la pena di essere letto con attenzione visto che c'è anche una parte che riguarda da vicino noi genitori

Un tuffo nella vita
Un progetto per le persone con la Sindrome di Down
La Sindrome di Down (SD), già nota nel XVI° secolo, deve il suo inquadramento clinico a J.L.Down il medico inglese che nel 1866 ne ha descritto le caratteristiche fisionomiche col termine ”mongolismo”, mentre J.M.Lejeune e coll. nel 1959 hanno dimostrato che la sindrome è dovuta alla presenza in triplice copia del cromosoma 21 o di una sua frazione, nel cariotipo di queste persone, da cui la definizione di trisomia 21.
I dati epidemiologici sulla SD sono sostanzialmente sovrapponibili in tutto il mondo, con una prevalenza nei nati vivi di 1/700-1000, e di 1/2000 nella popolazione generale. I quattro registri italiani (Campania, Emilia-Romagna, Veneto e Toscana), che raccolgono e inviano i loro dati al Centro Internazionale dei Difetti Congeniti (CIDC), confermano quanto emerge dalla letteratura internazionale.
La vita media delle persone con SD fino a un decennio fa era di 45-46 anni, con una sopravvivenza del 13% nella fascia di età fra i 45 e i 65 anni, oggi la vita media di queste persone, per le cure più attente che vengono loro prodigate, si aggira sui 60 anni. Si calcola che in Italia vi siano 48.000 individui con SD, di cui circa 10.500 nella fascia di età 0-14 anni, 32.000 fra i 15-44 e 5000 oltre i 44 anni.
In generale si definisce sindrome un insieme di segni e sintomi che permettono di riunire in una categoria specifica un determinato gruppo di individui. La SD, come abbiamo già detto, è caratterizzata dalla trisomia dell’intero cromosoma 21 o di una sua frazione, da un aspetto fisionomico caratteristico di tipo orientale, da un deficit cognitivo più o meno marcato, non quantificabile alla nascita e modificabile nel tempo con una costante azione educativa. Quest’ultima caratteristica della sindrome è la più evidente e nota, non tanto nel neonato, ma già nel bambino fin dai primi anni di vita e sempre più nell’adolescente e nell’adulto, per cui tutti i genitori sono preoccupati di fronte all’eventualità di concepire un bambino con la SD. Infatti il prolungamento della vita media, anche dei trisomici 21, ha reso più evidente la loro presenza nella società e di conseguenza, nel contesto sociale, le problematiche di questa sindrome sono diventate oggetto di particolare attenzione. Nell’ultimo decennio, molta dell’assistenza ostetrica si è concentrata sullo screening e sulla diagnostica prenatale delle anomalie cromosomiche, con indagini di previsione non invasive e diagnostiche invasive, di rapida e diffusa esecuzione, offerte alle gestanti, specie se avanti nell’età, che intendono legittimamente procreare figli privi di difetti congeniti, cromosomici, genetici o meno. Sta di fatto che la SD è oggi assunta a paradigma della diagnostica prenatale, tanto da farla considerare, con un alto impatto emotivo e pratico, quasi l’unico possibile esito negativo di una gravidanza, il che contribuisce a tutti gli effetti a far considerare, ancora oggi, le persone con SD, una minoranza discriminata.
Nella percezione collettiva, una volta che la diagnosi prenatale rassicura che il feto non sia affetto da SD, non vengono presi in considerazione altri rischi significativi, dimenticando che è in realtà molto più frequente la prevalenza di condizioni assai più gravi dal punto di vista assistenziale, quali ad esempio la paralisi cerebrale infantile.
Per molti, il bambino con questa sindrome è un bambino “malato”, rappresenta la frustrazione delle aspettative di una gravidanza finita in un incubo e si ritiene il paradigma dell’handicap tout court. Il cromosoma 21 in triplice copia è sicuramente il responsabile degli aspetti fisionomici e del deficit cognitivo che caratterizzano la SD, ma anche il restante patrimonio genetico contribuisce alla peculiare struttura psico-fisica di ogni singolo individuo.
È certamente vero che alcuni individui con questa sindrome, rispetto alla popolazione generale, possono presentare con maggior frequenza alcune patologie, ma ciò non giustifica che i trisomici 21debbano essere considerati una potenziale categoria di malati. Inoltre queste patologie non sono specifiche della SD e con controlli mirati, possono essere prevenute e curate come in tutte le altre persone.
Quando nasce un bambino con la SD, i genitori subiscono un trauma sulle proprie relazioni, aspirazioni, sogni, risorse e, in tempi brevi, devono affrontare una realtà di vita imprevista e sconosciuta. Essi hanno la necessità di essere sostenuti fin dalla nascita del bambino e poi in tutto il loro percorso di vita, oltre che dalle loro famiglie e dagli amici, anche dalle istituzioni. Quando questo evento si verifica, gradualmente prendono coscienza di essere stati catapultati e immersi in un’avventura coinvolgente e travolgente in cui il protagonista è il bambino che, con la sua sola presenza, mobiliterà energie a loro stessi nascoste, pur obbligandoli a ripensare la propria vita in modo diverso da quello sognato.
Fino a quando non ne siamo interessati personalmente, difficilmente riflettiamo sul fatto che l’handicap è una condizione esistenziale che possiamo considerare “democratica”, in quanto, in modo più o meno grave, si può presentare indiscriminatamente e in qualunque momento nella vita di ciascuno di noi, giovane o vecchio, ricco o povero, affermato o no. Tutti dovremmo quindi ritenerci potenziali portatori di handicap. In pratica però consideriamo e affrontiamo l’handicap non come un evento che accomuna tutti gli esseri umani, ma come un accidente individuale che, fino a quando non incide nella nostra vita, pensiamo che riguardi solo gli altri.
Da problema di tutti viene declassato a problema individuale, condizionato per risolverlo o attenuarlo, dalle risorse economiche e morali che l’individuo e/o la sua famiglia riescono a mettere in campo. Da questa osservazione dobbiamo trarre la convinzione che se vogliamo vivere in una società solidale, sia i singoli che gli organismi istituzionali devono preventivamente farsi carico, dell’handicap in generale, con provvedimenti legislativi e assistenziali, affinché anche i trattamenti, e non solo l’evento handicap, diventino “democratici”. La società tutta deve diventare più sensibile ai problemi dei più deboli in genere, perché ogni comunità deve essere consapevole che non solo i deboli hanno bisogno dei forti, ma che questi ultimi non possono essere veramente uomini senza i primi. Per tornare allo specifico, superato un periodo più o meno lungo di disorientamento, i genitori devono necessariamente mettere in campo strategie adatte ad affrontare il dato di realtà, nel miglior modo possibile. Per realizzare un nuovo progetto di vita, oltre alla ricerca di tanti perché, domina l’esigenza di un aiuto che non sia anonimo e teorico, ma compartecipe all’evento, al fine di identificare un percorso possibile, che permetta di valorizzare al meglio tutte le potenzialità del bambino che si conosce diverso e più debole, ma che, con determinazione, si vuole aiutare perché , malgrado i suoi limiti, si realizzi compiutamente.
Infatti, possiamo constatare spesso in ciascuno di noi che, accanto a sentimenti di accettazione di chi è meno dotato, i nostri atteggiamenti sono spesso ciclici ed ambivalenti. Passiamo da una tolleranza passiva, ancora oggi presente nella nostra società, perché nell’immaginario collettivo la situazione del diverso si ritiene immodificabile, alla enfatizzazione dei successi di alcuni, come se tali risultati fossero possibili a tutti.
Di fronte a problemi così complessi, in cui le decisioni non sono facili, è opportuno fare chiarezza e riflettere sulle conseguenze dei vari modi di pensare e di agire poiché, a determinati stati di conoscenza, di coinvolgimento e di sensibilità, conseguono atteggiamenti di vario tipo, che si possono sinteticamente riassumere, come segue.
Ci si può chiudere in un isolamento pessimistico, negativo. “Non vale la pena di fare nulla, lasciamo che la vita di questo individuo segua il suo corso, perché ogni intervento per migliorare la sua performance psicofisica è inutile. Esiste un danno che va realisticamente accettato. Non è ragionevole impegnare risorse ed energie. In questo caso, siamo di fronte ad un comportamento passivo o, nel migliore dei casi paternalistico, che ha come conseguenza inevitabile l’esclusione dal contesto sociale di chi ha la SD, e col tempo la negazione della sua personalità. Questo atteggiamento destinerà l’individuo a essere relegato in strutture sempre più marginalizzanti che gli negheranno una vita da considerare dignitosa. Opposta è la reazione ottimistica che può avere diverse sfumature. Come estremo si ha, da parte dei famigliari, la negazione della diversità, quindi si ritiene che il bambino possa raggiungere qualsiasi obiettivo in quanto, di fatto, non si vogliono vedere o si rifiutano i suoi limiti. E’ questa una visione utopistica, che porterà, in tempi più o meno lunghi, alla constatazione di insuccessi clamorosi e a frustrazioni distruttive dell’ambiente famigliare.
In altri casi vi è la consapevolezza che vi sono dei limiti, ma si sposa il dogma che, applicando con determinazione e qualche volta con rigidità, determinati schemi o metodi, si possono raggiungere risultati analoghi a quelli che ottengono le persone che non hanno la SD. Questi sono comportamenti che, in quanto imposti dall’esterno, non tengono conto del bilancio esistenziale della persona che si vuole aiutare.
Fra questi atteggiamenti estremi si pone una modalità comportamentale costruttiva, più realisticamente attuabile. La famiglia e gli educatori capiscono, ed in questo vanno sostenuti, che la persona con SD, pur con limiti specifici, diversi da individuo a individuo, possiede potenzialità nascoste che si possono scoprire vivendo con lui, giorno per giorno, in uno scambio reciproco di esperienze. Dal primo momento della sua esistenza l’impegno di chi gli sta accanto, e soprattutto dei genitori, è quello di mediare con continuità, fra la realtà e la sua capacità di comprenderla, cercando sempre la sua collaborazione. L’obiettivo è quello di mobilitare il più possibile tutte le sue energie, per aiutarlo a realizzare un programma di vita, adeguato alle sue capacità, utilizzando con pazienza e prudenza tutti i mezzi che servono a valorizzarne la coscienza di sé. Il fine è quello di renderlo il più possibile autonomo, senza ferirne la personalità, evitando di proiettare su di lui i nostri desideri e le nostre aspirazioni, per costruire con lui e per lui una vita il più possibile serena.
Per fortuna oggi da una valutazione sostanzialmente sanitaria della disabilità che poneva l’accento sul danno biologico e sulle carenze, si è passati, anche se con fatica, ad una comprensione che tiene conto oltre che della dimensione medica della SD, anche di far convergere le attenzioni sulla persona, e sulla sua realizzazione nella società.
Un fondamentale aiuto alle famiglie può essere dato dalle Associazioni se perseguono programmi di integrazione sociale, scolastica e lavorativa, e quando si impegnano per il raggiungimento dei più alti livelli possibili di autonomia con un ruolo attivo grazie ad una mediazione adeguata, senza schemi rigidi, presenti quando gli “altri” mancano, pronte a denunciare quando prevale la tutela di interessi corporativi a discapito della persona. Per questo è auspicabile che le Associazioni abbiano sede in strutture autonome, fuori dagli ospedali, per non focalizzare l’attenzione sugli aspetti medici della SD, e devono occuparsi delle relazioni sociali e del conseguimento dell’autonomia degli associati. Le cure mediche, come per tutte le altre persone, è bene che siano erogate dai pediatri e dai medici di base del territorio, il cui dovere è quello di essere informati sui protocolli diagnostici che consentono una corretta osservazione delle persone con SD loro affidate e di una rete di collaboratori di riferimento in grado di soddisfare le esigenze di volta in volta emergenti. Qualunque portatore di handicap deve vivere una vita il più possibile normale, pertanto gli deve essere garantito un buon stato di salute. Il medico è una figura molto importante che deve essere consapevole che, con altri professionisti, può diventare l’artefice della crescita psicofisica dell’individuo.
Le Associazioni fin dal primo incontro devono affiancare le famiglie nel percorso di crescita dei loro figli puntando l’attenzione sulle potenzialità e capacità dei singoli, così da consentir loro l’accesso ad una vita di soddisfazioni, di acquisire la capacità di affrontare le frustrazioni che spesso questo cammino comporta, di raggiungere traguardi in ambiti diversi…. in sintesi, di vivere una vita degna di essere chiamata tale. Interagendo con le strutture del territorio, facendo formazione dove questo si renda necessario e monitorando i processi evolutivi dei programmi concordati con riferimento attento e costante alle normative vigenti.
Questo cercano i genitori e questo deve essere il motivo ispiratore delle Associazioni che si occupano delle persone con la SD. Se spesso la motivazione iniziale dell’associarsi è stata quella di un mutuo soccorso fra le famiglie con lo stesso problema, nel tempo vi è stata questa evoluzione straordinaria e la presa di coscienza che, anche gli individui con SD, come tutte le altre persone, hanno il diritto di vivere una vita dignitosa nel contesto sociale, nonostante la loro diversità. Si è passati quindi dall’aiuto reciproco all’affermazione del diritto di usufruire dei presidi atti a mantenersi in buona salute, di essere istruiti pariteticamente nella scuola, di essere preparati al lavoro per essere inseriti con pieno diritto e dignità nella propria comunità.
Le Associazioni sono state nel nostro Paese il motore di legislazioni all’avanguardia nella scuola e nell’inserimento lavorativo, per es. con la legge 68/99 detta del “collocamento mirato”. Purtroppo molte volte queste leggi così importanti di giustizia e civiltà, che dovrebbero trovare piena applicazione, sono ancora disattese in molte realtà, a distanza di anni dall’entrata in vigore. Ecco perché le Associazioni devono rappresentare per le famiglie un punto di riferimento essenziale per la crescita dei loro figli, e non devono essere dei circoli chiusi e ghettizzanti.
Ma tutti abbiamo il dovere di concorrere a dare dignità a queste persone per il loro intrinseco e specifico valore e non in base agli stereotipi correnti. Prima di tutto con il non chiamarli più “mongoloidi”, termine che ha una connotazione negativa, in quanto usato in senso dispregiativo per loro o per altri, o col termine “down”isolato, poiché down significa, in senso lato, inferiore. Il modo corretto di definirli è portatori di sindrome di Down o di trisomia 21 o trisomici 21. Bisogna evitare di enfatizzare le performance eccezionali di alcuni, trasformandoli in fenomeni mediatici, mentre è necessario valorizzare le peculiari doti della maggior parte delle persone con SD.
Infatti fra tutte le possibili disabilità la SD consente, a chi ne è affetto, di vivere una vita di relazione, che deve essere certamente capita e accettata, ma che ha doti e capacità che devono essere utilizzate non tanto avendo come fine la produttività o il profitto, ma la crescita umana e civile sia dell’individuo con la sindrome che della comunità che lo accoglie. Queste persone hanno una straordinaria sensibilità che generalmente manifestano con una grande affettività, specie nei riguardi dei bambini e delle persone anziane, e una incondizionata fiducia in chi mostra di volerli capire e amare. Non hanno mai secondi fini, sono leali, aperti, incapaci di avere sentimenti di odio, e pertanto ci permettono di riscoprire valori che andiamo perdendo. Se ben istruiti possono svolgere occupazioni anche di una qualche complessità, non sanno cos’è l’assenteismo sul lavoro, a cui si dedicano con impegno, anche a costo di notevoli sacrifici. In un gruppo di persone che noi definiamo normali possono essere di stimolo e di esempio. Per tutti questi motivi e per altri ancora, invece di essere un peso, devono essere considerati una opportunità per tutti, al fine di favorire lo sviluppo di una società solidale.
“Un tuffo nella vita” è il titolo di questa breve riflessione sulle persone con la SD, ma il tuffo non basta se, famigliari, amici, professionisti, associazioni, istituzioni e ciascuno di noi in prima persona non ci facciamo carico di insegnar loro a nuotare.
Tappe fondamentali per la Sindrome di Down XVI secolo Identificazione della sindrome 1866 J.L.H. Down descrive ufficialmente la sindrome 1959 J. Lejeune e coll. dimostrano che la sindrome è legata alla presenza nel cariotipo del cromosoma 21 in triplice.
Anni ottanta Grazie alle Associazioni dei genitori si comincia a parlare dei diritti delle persone con Sindrome di Down e si ottengono importanti risultati nel campo dell’educazione scolastica e, sia pure con maggiore difficoltà, nel campo del lavoro Anni novanta Sotto l’impulso di Renato Dulbecco la ricerca genetica decodifica il genoma umano, e dopo 15 anni si passa alla fase postgenomica, caratterizzata dallo studio della genomica funzionale. In particolare vengono studiate le sequenze del cromosoma 21.
1999 I problemi delle persone con Sindrome di Down diventano di attualità, in positivo e in negativo, in ambienti culturali, sportivi e sui mass media di tutto il mondo.
Inizio del terzomillennio Le persone con Sindrome di Down affermano il loro diritto a far parte della società in cui vivono in piena autonomia e ad essere valorizzate nel contesto sociale per le loro specifiche qualità, con pari dignità e con il pieno rispetto delle loro peculiarità, nella convinzione che una società che vuole essere profondamente umana e civile deve considerare il diverso una risorsa, non un peso, in modo da favorire la crescita solidale di tutta la comunità.