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Discussione: "Sono stati i tuoi occhi" - invio recensione

  1. #1

    Predefinito "Sono stati i tuoi occhi" - invio recensione

    Domenica 13 Maggio 2007 - Il giornale di Vicenza


    «Nella sofferenza si entra soltanto in punta di piedi»
    Sono una madre fortunata che ha conosciuto il mondo E adesso vorrebbe comunicare bellezza
    Francesca ha adottato un bambino down morto poi di leucemia Ha raccolto la sua esistenza in un libro: “Sono stati i tuoi occhi”
    Vorrei che Dario con la sua storia potesse donare tanta passione E “solo” per la vita
    Il nostro mondo è carico di sfide e di solitudine. Ognuno si tiene stretto il suo dolore
    Penso che si possa essere madre per un giorno, un mese un anno. E sempre in un modo diverso


    di Chiara Roverotto



    - Scegliere di vivere in una casa-famiglia, accogliere persone in situazioni di disagio non è una scelta semplice: che cosa l'ha spinta verso questo mondo difficile, in grado, evidentemente, di esprimere e di dare forti emozioni?
    «Mi sono ritrovata ad un certo punto della vita a sentire che tutto trascorreva senza intoppi, ma anche senza grandi gioie. Sentivo che le cose che più mi piacevano erano relegate ad una parte della esistenza molto piccola e ho cominciato a pensare che tutto passava, fluiva in fretta, però si rischiava di perdere gran parte del tempo in attesa di fare ciò che realmente era importante. Indubbiamente lo stimolo della fede era forte e, ciò che avevo sperimentato in famiglia e nei gruppi a cui avevo partecipato, era pressante e mi stimolava a cercare qualcosa di più della casa, della famiglia e del lavoro. Siamo partiti mio marito ed io alla ricerca... Poi abbiamo capito che forse dovevamo cercare di “essere” qualcosa di diverso. E questo l’abbiamo compreso quando abbiamo incontrato qualcuno che ha allargato i nostri orizzonti. Si parte pensando di fare qualcosa per gli altri, poi ci si rende conto che sono gli altri a darti qualcosa in più».
    - Lei si è sentita sempre madre nello stesso modo con i ragazzi che ha accolto, anche se a volte la durata era limitata, ristretta a tempi brevi?
    «Penso che si è madre per un giorno, per un mese, per un anno, per una vita. Ogni volta in modo diverso. È così anche per i figli naturali. Nel rapporto con ognuno di loro c' è qualcosa che li contraddistingue rispetto all’altro. E questo accade perché siamo diversi. Sicuramente con qualcuno si entra subito in relazione, con altri si fa più fatica perché ci sono difese da abbattere e preconcetti da superare».
    - Come si rassicura un bambino, una persona che si vede allontanata dai propri affetti, dalla propria famiglia?
    «Già arrivare in una famiglia e non in un istituto facilita l'approccio, anche se subito nascono il confronto con la propria situazione e la diffidenza. È sempre un incontro delicato. Come dice qualcuno: “nella sofferenza bisogna entrare in punta di piedi” ed accettare che i primi momenti siano difficili e imprevedibili. Poi, ogni situazione va affrontata diversamente a seconda del punto di partenza, della causa dell’ allontanamento, dell'età. Dopo 18 anni di casa-famiglia ogni volta devo fermarmi e chiedermi: “E adesso?”. Per fortuna non si è mai da soli in questi momenti».
    - Come vede la società in cui stiamo vivendo?
    «Il nostro è un mondo pieno di sfide e carico di solitudine. Apparentemente c'è molta comunicazione, in realtà ognuno si tiene ben stretto il suo mondo. A volte incontrando tanta sofferenza ci si sente sopraffatti e disarmati. Ma vicino c'è un mondo che sta cercando di venire a galla fatto di solidarietà e di voglia di stare insieme. Io credo che, soprattutto, nei giovani ci sia un gran bisogno di sperimentare emozioni positive. Il problema è che non ne trovano perché anche noi adulti crediamo poco al cambiamento e ci fermiamo un attimo prima, rassegnati e sfiduciati».
    - La sua casa-famiglia è un'isola felice?
    «Spero proprio di no. Nel senso che sia felice sì, ma non un’isola. Io conosco centinaia di persone che hanno scelto di vivere a braccia aperte. È molto più diffuso di quanto si pensi. Non solo persone della comunità di cui faccio parte, ma anche tantissime famiglie. Poi le difficoltà, i momenti duri ci sono sempre. L’aspetto più importante per me è capire che la sofferenza esiste, fa parte della nostra vita. Noi non avremmo il concetto di gioia se non avessimo quello di sofferenza e viceversa».
    - Lei ha una figlia naturale ed ha adottato Dario, un bambino affetto da sindrome down, morto un anno fa per una leucemia. Da quest'ultima esperienza è nato un libro: “Sono stati i tuoi occhi”. Che cosa le hanno trasmesso quelle due punte di spillo quando le ha viste la prima volta in ospedale?
    «Ero in un periodo particolare della vita, un momento di profonda riflessione. Quegli occhi erano due piccoli fari e mi hanno trasmesso il senso dell' “abbandonarsi”, del “fidarsi”, della “fragilità” e insieme della “sicurezza”».
    - Dario le ha rivoluzionato la vita, lo si capisce leggendo le sue pagine: era pronta, a distanza di tempo, per... salpare verso quell’avventura?
    «Don Oreste Benzi, responsabile della comunità di cui faccio parte, dice spesso: “Le cose belle prima si fanno e poi si pensano”. Questo non sempre è possibile, ma quel giorno non sapevo ancora cosa sarebbe successo, però in quegli occhi ho intravisto un futuro».
    - Che cosa le ha lasciato Dario d’importante?.
    «Principalmente mi ha “piantato” dentro al cuore o meglio in tutto il corpo un senso di pace e serenità. Vede, c'è ancora molto dolore per la sua perdita, ma ogni volta che penso a lui, assieme alle lacrime spunta sempre anche un sorriso. Era disarmante: ogni volta che c’era un momento di tensione lui riusciva a scioglierlo con uno sguardo, un abbraccio, un sorriso. Nella sua “malattia” ha fatto capire a tutti quelli che incontrava che, spesso, l'intelligenza invece di aiutarci ci limita. Era come se dicesse: “Ma voi che potete farlo, perché non rivoluzionate il mondo?”».
    - Perché ha voluto scrivere un libro e, quindi rendere pubblica un'esperienza tanto personale?
    «Questa storia in un certo senso era già pubblica. Noi incontriamo ogni giorno decine di persone che passano per la nostra casa, si fermano con noi, mangiano, fanno festa. Poi da tempo sto girando nelle scuole, nei gruppi per condividere l'esperienza che stiamo cercando di vivere e lo faccio raccontando la storia di Dario. Quando ho visto che scendeva una lacrima dal volto di una ragazza di un liceo mentre parlavo, ho pensato che dovevo proprio scrivere. Poi, egoisticamente, l'ho fatto anche per me, per rivivere questa storia e poterla ricordare sempre. E, infine, per mio marito e per mia figlia Anna».
    - Leggendolo sembra di camminare sempre su un filo, però lei riesce a non essere mai banale, scontata: è stata dura non lasciarsi prendere dal sentimentalismo?
    «Mia figlia Anna, quando ha letto il libro la prima volta mi ha detto: “Brava mamma, ma ricordati che il libro non l' hai scritto tu ma te l' ha dettato Dario”. È vero: si trattava di rendere con le parole un mondo fatto di gesti e di sguardi. Spero che in quelle pagine si senta la “passione” per la vita».
    - Pensa che il suo scritto possa aiutare anche altre famiglie che vivono o hanno vissuto la vostra esperienza con tutti i distinguo del caso?
    «Il giorno dopo la presentazione del libro mi ha telefonato la mamma di una ragazzina disabile e mi ha detto: “Francesca, sei riuscita a tradurre con le parole tante cose che vivo da anni. Grazie”. È stato il più bel commento che potevo ricevere. Spero serva ad altri genitori, agli insegnanti, ai ragazzi. Soprattutto, per interpretare la diversità come una ricchezza».
    - È stato difficile rimettere assieme i ricordi di Dario, dargli uno spessore all'interno di un libro?
    «Mio figlio riusciva a rendere la cosa più semplice, importante. Mi ha insegnato a non trascurare mai le piccole cose fatte di genuinità come gesti, attenzioni, sguardi e a valorizzarle a mano a mano che trascorrevano le giornate. Così gli aspetti che sembrano molto più rilevanti, a volte prendevano una giusta posizione. Per questo, nel libro, sono riportati fatti e ricordi che all'apparenza sembrano banalità, ma che in realtà si sono rivelati lo scheletro portante di questa immensa avventura».
    - Non si è mai chiesta: ma che cosa sto facendo?
    «Spesso mi viene rivolta una domanda: “Non vorresti tornare ad una vita normale?”. È proprio sul concetto di “normalità” che ho voluto mettere l' accento nel libro. Dove sta scritto che tutto quello che oggi riteniamo normale sia realmente così? Forse in questi ultimi anni abbiamo travisato il termine e perso di vista l'obiettivo della nostra vita. Per me significa vivere pienamente ogni giorno cogliendone ogni sfumatura e sfruttandone ogni istante sentendo di essere all’interno di un progetto di realizzazione di qualcosa di grande».
    - Che significato hanno le parole maternità e paternità ai nostri giorni dove si buttano i figli nei cassonetti, i padri violentano le loro creature e l'aggressività è la parola d'ordine in quasi tutti i rapporti: in famiglia, a scuola....?
    «Maternità e paternità sono alla base del nostro vivere. Penso che bisognerebbe dare più risalto a tante storie d’ amore vero che esistono, ma sono relegate in un cassetto perché non fanno notizia. Ci sono tantissime famiglie e altrettanti genitori che sanno rendere veramente grandi queste due parole. Spesso le storie più difficili sono quelle che si ripetono perché nessuno è riuscito a spezzarne il decorso, a far invertire la rotta. E non è un problema di quel genitore o di quella famiglia. Ognuno di noi è responsabile di ciò che accade nella porta accanto. Io credo molto nelle piccole gocce, nei piccoli cambiamenti che possono cambiare anche le cose grandi e i problemi che sembrano insormontabili. Sono per il “mettersi accanto”. Anche se per esperienza personale so che è una strada molto difficile e lenta perché i risultati si vedono, quando si riesce, dopo tanto tempo e tanta fatica. Rimango dell'idea che ci vogliono molte più energie nel mettere a posto le questioni, nel risolvere i problemi che nel permettere che questi non insorgano».
    - Molti genitori non reggono all'idea di mettere al mondo un figlio down, alcune mamme abortiscono prima, oppure i piccoli vengono abbandonati in ospedale: che cosa si sente di dire a queste coppie?
    «Ho un grande rispetto per tutte le mamme, e i padri, che si trovano di fronte ad una scelta. Vorrei solo poter dire: non sarete soli. Ma so che è troppo semplice dirlo. Poi, in realtà, è proprio vero che una famiglia si ritrova comunque da sola ad affrontare una moltitudine di problemi. Ritengo, come ho scritto anche nel libro, che dovremmo renderci conto che mentre sappiamo ciò che potrebbe accadere con la nascita di un bambino disabile, dei nostri figli “normali” non sappiamo nulla. Non prevediamo che problemi dovremo affrontare, quali sfide ci aspetteranno. E ultimamente incontro molte più mamme e papà che soffrono per come sta crescendo il loro figlio e per la difficoltà che incontrano nel contrastare atteggiamenti e comportamenti devianti. In tutti i casi è sempre la condivisione intesa come - con-dividere o dividere-con -, la strada che mi sembra percorribile. Io ho avuto la fortuna di non essere mai sola».
    - Ogni giorno nel mondo, indipendentemente dalla razza e dalla collocazione geografica nascono 200 bambini down, 2 al giorno solo in Italia. La nascita di queste persone ha provocato negli ultimi vent'anni nel nostro paese una piccola rivoluzione culturale per l'integrazione sociale e il diritto di cittadinanza. Rimane ancora molto da fare anche se nella nostra provincia ci sono molte associazione che si occupano di disabili?
    «Quello che mi sembra manchi qualche volta è capire che tutto quello che viene fatto per rendere migliore la vita alle persone disabili, migliora le condizioni di vita di tutti. Pensiamo alle barriere architettoniche: un gradino in meno, un ascensore, uno scivolo rende tutto più facile alle mamme con i passeggini, agli anziani e prima o poi a tutti. Nella scuola, poi, è ancora più evidente: ambienti più grandi, aule più agevoli, classi meno numerose, compresenza di insegnanti, lavori in piccoli gruppi. Io ho visto insegnanti escogitare idee meravigliose per far integrare un alunno disabile. Ed è stata una conquista per tutti. Nel Vicentino, siamo particolarmente fortunati perché esistono tantissime associazioni. Bisognerebbe forse dar loro più spazio negli ambienti dove si prendono le decisioni, dare più risalto alle iniziative. Mi domando, poi, a livello universitario se esistano spazi concreti di diffusione e di discussione. Ma credo siano ancora pochi. Quando vedo, durante i campi di condivisione estivi, che proponiamo ogni anno come comunità per dare la possibilità a ragazzi disabili di poter trascorre un periodo di ferie con coetanei e ad alcuni giovani di poter sperimentare la ricchezza di un'estate “senza barriere”, le persone che ci incontrano al mare o in montagna prima ci guardano con un senso di fastidio, poi cominciano ad avvicinarsi e spesso si uniscono nei giochi oppure nelle feste. Credo che le difficoltà siano, soprattutto, frutto di “ignoranza” - nel senso di non-conoscenza- e superficialità. Allora sta a noi “far vedere” e “far conoscere” cercando tutti i canali possibili: quest’intervista potrebbe essere uno, il libro che ho scritto un altro».
    - Come è continuata la vita dopo la morte di suo figlio e dove ha trovato la forza per continuare ad andare avanti, seguendo la medesima strada?
    «I primi momenti sono stati di smarrimento, di grande dolore. Subito ho pensato: “Non ci sarà niente come prima”. Ed era vero. Niente è come prima, perché altrimenti Dario non sarebbe stato così importante nella mia vita. E alcune cose saranno diverse proprio perché ogni persona porta in sé uno specifico diverso dagli altri quando non c'è più. Per fortuna ci sono altri occhi. Primi fra tutti quelli di mio marito, di mia figlia e di tutta la mia famiglia. E, poi, è una scelta vissuta all'interno di una comunità che è una famiglia allargata, dove sofferenze e gioie si portano e si dividono insieme».
    - Quando Dario l'ha fatta disperare di più e quando le ha regalato il suo sorriso più bello?
    «Non ricordo che mi abbia fatto disperare. Rammento un giorno in cui non lo sentivo muoversi in casa da un po' di tempo. Lui si aggirava tra le stanze autonomamente, ogni tanto lo controllavamo, però sapeva gestirsi bene senza mettersi mai in pericolo. Quel giorno era troppo silenzioso. L’ho trovato nella mia camera seduto sul letto con un sorriso e un' aria così soddisfatta che non sono riuscita ad arrabbiarmi quando mi sono resa conto che aveva accatastato tutto ciò che c’era nella stanza: suppellettili, libri. E tutti in un unico angolo in modo molto minuzioso e accurato e se ne stava soddisfatto a guardare la propria opera. C'è voluto molto tempo per rimettere in ordine. Ma quello è stato uno di quei momenti in cui tra il pianto per il disordine e il sorriso non c'è stata scelta. I momenti difficili si presentavano quando mio marito s’allontanava per lavoro e Dario, lentissimo in tutte le cose che faceva, mi faceva arrabbiare perché non voleva andare in bagno o non voleva scendere dall'auto. Comunque, mi ha fatto arrabbiare molto meno di tanti altri...».
    - Ha mai versato una lacrima per una critica velenosa?
    «Si, mi è accaduto. Mi ha fatto soffrire sentirmi dire che non avevo fatto abbastanza per mio figlio, che dovevo lottare di più e che non gli avevo dato tante possibilità. È successo il giorno in cui festeggiavamo i quindici anni di casa-famiglia e quindi la stessa età di Dario. Ho pianto molto e la paura di scrivere questo libro e pubblicarlo era dettata proprio dal pensare che qualcuno lo interpretasse in maniera sbagliata: io non voglio mettermi in mostra o pensare di essere più brava di altre. Sono una madre, forse fortunata che ha conosciuto un mondo particolare e che vuole tentare di comunicare qualcosa di bello e che spera che questo diventi uno stimolo per altre persone. Vorrei offrire a loro la forza di venire allo scoperto, di parlare, di dare voce a chi non ne ha».
    - Che cosa la mette più in crisi?
    «Cercare di essere obiettiva. Il rischio di non vedere fuori da me stessa, di ritenermi a posto e di dimenticarmi di quegli occhi».
    - Come sono i suoi occhi?
    «Questo dovrebbe chiederlo a chi mi incontra. A volte esprimono tristezza, stanchezza».
    - Hanno qualcosa in comune con quelli di Dario?
    «Vorrei potessero trasmettere la sua passione per la vita. Non sempre è così. Quando Dario morì mia figlia Anna mi disse: “E adesso, quando sto male, dove vado...? E questo “vuoto” c’è ancora».
    - Ha saputo rispondere a quella domanda?
    «Abbiamo tanti piccoli angeli che ci portano il peso di tutto il resto».
    - La vostra casa è un piccolo porto di mare: che cosa vi porta, vita, rumori, rimpianti, lacrime, nostalgia?
    «Si vive un po’di tutto, a volte la delusione per non essere arrivati in tempo. Oppure quella di sentirsi per un attimo inadeguati di fronte a certe storie, situazioni. Però non siamo soli. E, questo, non è poco...»



    Specifico subito che il libro non l'ho letto, non so come sia, ve ne segnalo solo l'esistenza.
    Francesco

  2. #2

    Predefinito Re: "Sono stati i tuoi occhi" - invio recensione

    Si scrive:

    Quote Originariamente inviato da francesco

    Specifico subito che il libro non l'ho letto, non so come sia, ve ne segnalo solo l'esistenza.
    Si legge:

    non sparate sul pianista!
    Pregando poi, non sprecate parole..., perchè il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate [Mt. 6, 7-8]

  3. #3

  4. #4

    Predefinito

    Quote Originariamente inviato da drdlrz
    o anche "ambasciator non porta pena"
    E' quello che va ripetendo Gino Strada ma non gli crede nessuno!
    Pregando poi, non sprecate parole..., perchè il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate [Mt. 6, 7-8]

  5. #5

    Predefinito

    Quote Originariamente inviato da Nunzio Visualizza il messaggio
    Si scrive:



    Si legge:

    non sparate sul pianista!

    ????????????
    "....il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino."
    Enc. "Spe Salvi"
    Benedetto XVI

  6. #6

    Predefinito

    Ho letto il libro.

    E' splendido!

    Lo consiglio caldamente.
    "....il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino."
    Enc. "Spe Salvi"
    Benedetto XVI

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