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Visualizza la versione completa : Pensieri sulla prima parte del libro



gin mario
28-03-2006, 16:53
Permettetemi di esprimere alcuni miei pensieri che mi sono venuti dalla lettura del libro: “Come pinguini nel deserto”. Premetto che non l’ho letto ancora per intero, sono circa a metà.
Io non sono sposato e non ho figli però mi è stato affidato il compito di collaborare all’educazione di un bambino con SDD di una coppia di miei carissimi amici. Così io intendo l’essere padrino di battesimo del loro figlio. Questo mi dà una piccolissima competenza (nata e sviluppata sul campo) per parlare su questo argomento. Vorrei soffermarmi solo su due momenti della “diversità” di un figlio con SDD.
Il primo: fin dalla nascita del bambino nessuna delle esperienze riportate nel libro (di quella parte che finora ho letto) accenna a somiglianze varie con mamma, papà, nonni o altri stretti familiari. In altre occasioni di nascite di figli “normali” ho sentito fare l’elenco delle varie somiglianze somatiche. Sembra quasi un rituale inevitabile che penso serva a riconoscere il bambino all’interno della famiglia allargata. E’ un po’ come dire che quel figlio ha qualcosa di “uguale” con la mia famiglia e per questo è accettato. Con un figlio Down ciò non sembra possibile: Lui è “diverso”. Già a questo livello io stesso mi sono accorto che accogliere la diversità costringe ad essere diverso. Devo subito cambiare i miei stereotipati gesti o pensieri abituali per gioire con i miei amici del figlio che gli è nato, altrimenti avrei fatto la faccia triste di circostanza chiamandoli “poveretti” per la “disgrazia” capitatagli. Per accoglierlo Lui stesso ci chiede di cambiare e, cambiare, significa essere diversi da come si è sempre stati. E’ come se la “diversità” esiga la “diversità”. Mi sembra di capire che avere un figlio (per me padrino di battesimo si dice: figlioccio) Down è possibile solo se si è disposti ad essere dei “diversi” per sempre, dalla sua nascita (accettarlo, esprimere gioia per lui, vantarlo davanti ai nonni, ai parenti, agli amici) lungo tutta la sua vita (non vergognarsi, lottare per dargli ogni possibilità, ecc.), fino alla sua morte. Se la sua diversità si esprime nei tratti somatici e nelle diverse capacità intellettive, emozionali ecc, per noi la diversità deve esprimersi nella nostra “forma mentis” all’interno di una società ancora incapace di accogliere coloro che non gli sono uguali (e questo non vale solo per le persone con SDD).
Secondo momento della “diversità”. I genitori hanno un progetto di vita per i loro figli? Chissà quanti durante il periodo della gravidanza. Chissà quanti sogni, ideali s’immagina di realizzare. Poi appare nella vita dei prossimi genitori il figlio con SDD e non ha importanza se lo sanno prima o dopo il parto; cosa succede? Alcuni si pongono il problema se accettarlo o no, altri lo accolgono subito ma in tutti cadono i progetti, i sogni. Si pensa subito al suo futuro, alla qualità della sua vita soprattutto dal punto di vista della sua autonomia. Allora nasce la domanda: come si fa ad educare un figlio Down? Forse la domanda non è posta in questi termini ma le analisi sulle proprie capacità, sui pregi e difetti della società nella quale viene ad inserirsi, sui luoghi comuni sempre fuorvianti la vera realtà del bambino, alla fine fanno emergere il problema principale: il superamento di tutto ciò passa attraverso il tema dell’educazione. Non servono i farmaci, la chirurgia ma solo un vero processo educativo nel senso più alto del termine.
Qualcuno ha detto “…occorre amarlo di più”. Accoglierlo è già amarlo: il “di più” cosa significa?
Ognuno dia la risposta che riesce a dare. Un ottimo punto di partenza per me può essere: “La mia diversità – dice il bambino – ha azzerato in te (mamma e papà) ogni tua pretesa di fare di me secondo i tuoi desideri; non sono così plasmabile nelle tue mani. Chiedo a te (mamma e papà) di capire in profondità chi veramente sono e di assecondare questo mio essere con la tua opera educativa senza pregiudizi, preconcetti o desideri nascosti”.
Io ho avuto diverse esperienze nel campo dell’educazione di ragazzi e giovani ma è la prima volta che mi sento a mia volta “educato” (e non sono giovanissimo) non da discorsi più o meno allettanti ma da atteggiamenti, richieste, sentimenti, comportamenti che forse inconsciamente questo ragazzo Down mi trasmette. Certamente anche Lui non va idealizzato: ha i suoi difetti, le sue resistenze; sta all’educatore saper distinguere.
Per finire voglio dire che la diversità di questo figlio libera i suoi educatori (in primis mamma e papà) dalla forte tentazione di fare di Lui una persona a “propria immagine e somiglianza” con l’enorme rischio di cocenti delusioni. Il fatto educativo non è mai a senso unico (dai genitori al figlio); esso è più efficace se da parte dell’educatore (ripeto in primo luogo i genitori) c’è disponibilità a lasciarsi educare dall’educato (scusate il gioco di parole).

Marzo 2006 ginmario

drdlrz
28-03-2006, 17:42
Per finire voglio dire che la diversità di questo figlio libera i suoi educatori (in primis mamma e papà) dalla forte tentazione di fare di Lui una persona a “propria immagine e somiglianza” con l’enorme rischio di cocenti delusioni.


questo è certamente vero, ed è un fatto positivo... purtroppo però il ritardo mentale, quantomeno nei casi più gravi, toglie anche quanto c'è di bello nell'educare un figlio, ovvero trasmettergli i propri valori e la propria visione della vita e del mondo... :( :roll:

Grazie, ginmario, della tua recensione... e aspettiamo che tu finisca anche la seconda parte per continuare a parlarne! :)

milena
28-03-2006, 18:04
Permettetemi di esprimere alcuni miei pensieri che mi sono venuti dalla lettura del libro: “Come pinguini nel deserto”.
Il primo: fin dalla nascita del bambino nessuna delle esperienze riportate nel libro (di quella parte che finora ho letto) accenna a somiglianze varie con mamma, papà, nonni o altri stretti familiari. In altre occasioni di nascite di figli “normali” ho sentito fare l’elenco delle varie somiglianze somatiche. Sembra quasi un rituale inevitabile che penso serva a riconoscere il bambino all’interno della famiglia allargata. E’ un po’ come dire che quel figlio ha qualcosa di “uguale” con la mia famiglia e per questo è accettato. Con un figlio Down ciò non sembra possibile: Lui è “diverso”.


In effetti gin Mario... hai fatto un'osservazione più che giusta...
Io non so dirti se c'è una spiegazione scientifica al fatto che in un momento di dolore come lo è la nascita di un figlio Down, non ci si concentri su tutte quelle «sciocchezze» su cui ci si pone in una situazione normale, credo sia da un lato una conseguenza logica perchè i pensieri sono talmente tanti e vorticosi che proprio non ci si pensa, ma probabilmente dall'altro lato, sì, è come dici tu, di solito si cerca di riconoscere il bambino fin da subito, invece nel nostro caso c'è un rifiuto netto... come se quel bambino non lo sentissimo parte di noi perchè non è come lo volevamo e lo avevamo sognato.
Per quel che mi riguarda, ad esempio, è solo da qualche anno che intravedo in mia figlia Francesca delle forti somiglianze con me, ed in lei certe espressioni del viso che sono proprie di mio padre... e forse, questo mio riconoscerle delle somiglianze con noi della famiglia, è la cartina tornasole dell'accettazione del suo essere diversa ma parte di me... e quindi la fine di un processo di assorbimento del problema.

Comunque interessante analisi la tua, aspetto con piacere di leggere il resto!

maxniola
28-03-2006, 19:32
gin mario, mi associo alla tua analisi, perchè la trovo corrispondente al mio modo di vedere e di sentire.

L'accettazione e l'accoglienza di un figlio che non corrisponde all'ideale crea una fatica quotidiana, che ognuno di noi supera secondo il proprio modo di vedere la realtà che ci circonda.
Per integrare alcuni concetti di gin mar vorrei di seguito allegare alcune considerazioni di persone che personalmente reputo di riferimento:


\…………comunque, la prima osservazione che mi sentirei di fare è che tutti i bambini che vengono al mondo, sono contenti di venire al mondo. E anche quelli che noi riteniamo disabili o limitati, loro questa disabilità o limite non la sentono per niente, perché loro sono attaccati alla vita; a loro piace la vita così come la vivono, anche perché non sanno che c’è una vita “diversa”. Per cui il problema del limite, della percezione dell’intensità del limite, riguarda soprattutto noi che li guardiamo e vediamo che non corrispondono all’immagine che noi abbiamo: questo è il problema.

Il bambino Down, o con altro limite, è contentissimo, se noi siamo contenti; la sua infelicità comincia dalla nostra. A mio avviso, dobbiamo sempre tener presente che la percezione del limite è qualcosa di fronte a cui siamo posti noi, è un problema nostro; per loro è un problema di difficoltà della vita, come uno piccolo che deve giocare a pallacanestro. Quando M……. prima ha detto che fa fatica ad andare in giro è perché gli altri non sopportano di guardare questo limite; noi non sopportiamo di guardare ciò che non corrisponde a quanto immaginiamo che debba essere. E non lo sopportiamo, fino al punto di vergognarcene. Noi pensiamo alla vita come se la vita fosse nostra, come se nella vita comandassimo noi.
La vita non è nostra, nella vita non comandiamo noi, perché la vita non ce la siamo data noi. Cioè, non sono limitati solo i bambini Down: siamo limitati noi, e lo siamo fortemente; la vita ci limita fortemente! Non è un’opzione. La nostra tendenza è quella di rifiutare di essere fatti da qualcun Altro, cioè di non essere noi gli autori della vita e della realtà. «Di tutte le piante puoi mangiare, eccetto che di una», quella della conoscenza del bene e del male, perché il bene e il male non l’hai fissato tu, non è tuo. La ribellione di Adamo a Dio, con cui noi siamo solidali, è la ribellione al suo essere creatura, perché lui, a un certo punto, ha voluto diventare come Dio, non ha sopportato di essere creatura, cioè non ha sopportato di essere limitato, di dipendere da un altro per definire qual è il valore della vita. E allora Dio, ad Adamo, ha detto: vattene dal Paradiso terrestre! Vuoi vivere in
un mondo dove comandi tu? Vivi nel mondo dove comandi tu, cioè nel mondo dominato dalla morte, perché tu sei creatura, quindi finirai. Si chiama peccato originale: questo veleno che l’uomo ha dentro, come lo chiamava don Giussani, definisce il mistero della vita dell’uomo; questo veleno che l’uomo ha dentro di ribellarsi a Dio.
E’impressionante che Dio, facendosi uomo, ha dimostrato la sua potenza sul limite, facendo i miracoli; e alla fine con la Resurrezione - ha dimostrato di essere lui il vero padrone delle cose, di essere Dio. Però, ha dimostrato questa sua potenza sottomettendosi al limite, alla morte e alla morte di croce, come a dire all’uomo: «Il tuo Dio è uno che soffre come te», , che accetta la tua stessa condizione, non si sottrae al dolore e alla sofferenza, ma lo redime, cioè lo vince condividendolo.
Per essere veramente uomini, per essere quello che noi vogliamo essere, dobbiamo riconoscere il limite di cui siamo fatti e riconoscere chi ci salva da questo limite. L’unico motivo che ci può essere al dolore nel mondo - e il motivo per cui ci sono questi bambini - è perché noi capiamo questo,rendiamo conto di come siamo fatti. Se noi non ci rendiamo conto di come siamo fatti, se noi non guardiamo in faccia la nostra limitatezza, non accettiamo la nostra insufficienza, diventiamo dei cani, nel senso letterale della parola.
Mounier la sua bambina handicappata la metteva a capotavola, la metteva al centro, perché per lui era il richiamo di cosa fosse l’uomo. Noi accettiamo questi bambini perché questo è per cambiare noi e per cambiare il mondo.
Tirar su un figlio così, o accettare un figlio così, vuol dire accettare e riconoscere la propria incapacità, accettare che si è uguali, che si è fatti allo stesso modo. E non è che Dio si diverta a “distribuire” bambini Down, o sfortune, o morti, eccetera, ma è l’esito del mondo come l’uomo lo ha voluto. Tuttavia, a chi riconosce il proprio bisogno di Dio, Dio dimostra che il limite non è ultimamente vincente.
………………………..L’accettazione della condizione di limitatezza, della fatica, costringe ad essere amici, cioè costringe ad essere quello per cui noi siamo fatti. Il mondo va molto più avanti per queste cose che non per tutte le altre, il mondo va molto più avanti per questo bisogno che si riconosce, per questa accoglienza, per questa accettazione, che non per tutti gli altri disegni di potenza.
Io insegno Storia della Medicina e faccio sempre notare agli studenti il passaggio che c’è stato tra l’epoca classica e l’epoca cristiana: nell’epoca classica i malati - che erano per lo più infettivi e quindi pericolosi - venivano allontanati; nell’epoca cristiana invece, i malati hanno cominciato ad essere assistiti, ad essere prima ospitati, poi ricoverati e poi ospedalizzati. Il Medioevo ha fatto gli ospedali. Gli ammalati erano ugualmente pericolosi, infettivi, nell’epoca classica come nel Medioevo. Nell’epoca classica, non c’erano gli infermieri, sono nati in epoca cristiana. Perché sono nati? Perché l’uomo non ha più preso il limite allontanandolo come un segno di tragedia e di fato che incombeva sulla vita, ma l’ha assunto, l’ha accolto in via della Risurrezione di Cristo, in via della vicenda di Cristo. Questo ha determinato il vero progresso della medicina: se non fossero
assistiti gli ammalati, non si sarebbe progredito in niente. Senza Cottolengo, non ci sarebbe la medicina. Senza questa attenzione alla persona, non ci sarebbe tutto quello che c’è.
Io – che sono un po’ handicappato - non posso correre: anche se mi sforzo, non posso più correre; possono raccontarmi che ho delle abilità diverse, ma non posso correre. La vita è così. Come uno che è alto un metro e cinquanta, se si mette a giocare a pallacanestro può darci dentro tantissimo, ma uno alto due metri lo vince quasi sempre. Bisogna partire da questa considerazione della vita, non da una vita che deve essere come vorremmo, perché non è così. E certamente è misterioso il modo in cui ognuno di voi è stato segnato ed è misterioso il segno che voi siete nel mondo; è misterioso il contributo che voi date al mondo. Misterioso vuol dire che è l’ultima cosa che uno si aspetta, ma che accade.
Misterioso vuol dire che si vede, si tocca, ma non si capisce, non sta sotto il nostro comando. É la vita che è misteriosa; è il cambiamento della realtà che è misteriosa, che dipende veramente da qualcosa, da qualcuno, che non siamo noi.

……………..Per un handicappato è più difficile per il modo in cui è guardato, non per l’esigenza che ha lui, che è giusta. Ci può essere una signorina, che magari non è handicappata, eppure non trova come concludere la vita.. L’unica cosa che puoi fare tu, è volergli bene e basta. E, attraverso il tuo volergli bene, rendere conto a tutti che la cosa importante nella vita è voler bene, perché è ciò di cui abbiamo bisogno tutti, anche se questa esigenza tuo figlio la solleva in modo particolarmente intenso, tanto da fartelo capire.

……………………..Il limite in sé, il dolore, non hanno nessun senso, sono pura e semplice disgrazia. L’unica modalità per cui possono avere senso è che ci sia una risposta, cioè che ci sia un Bene, perché allora il limite e il dolore acquistano senso. Che senso acquistano? Che questo Bene, che c’è, non l’abbiamo fatto noi. Non dipende da noi, non dipende da noi. Quando tu ti innamori di una donna e lei ti dice “sì”,questo “sì” che ti dice è un miracolo e, invece, tu normalmente lo tratti come se fosse qualcosa di dovuto, mentre è un miracolo perché è un atto libero che non dipende per niente da te, tanto è vero che se non ti vogliono bene tu ti arrabbi , invece è un miracolo. Con persone come tuo figlio, capisci che questo è un miracolo e capisci qual è la natura dell’amore, della libertà, dell’amicizia.
Capisci qual è la natura dell’uomo. E non solo lo capisci tu, ma sono obbligati a capirlo tutti, perché in situazioni come le vostre non bastano solo i genitori, bisogna che si muova anche il resto.
…………………….L’unica ragione per cui si può accettare il limite è la coscienza che al nostro limite è stata data una risposta più grande. Per cui, tutto il limite che c’è lo si prende, lo si accetta; non è che lo si cerca, lo si accetta.

……………………..Vuol dire imparare ad amarli come sono. Io credo che soprattutto voi vi rendiate conto di quanto, amando gli altri, noi non amiamo gli altri ma amiamo l’idea che ci siamo fatti di loro. In questo caso, invece, non è possibile: non puoi amare l’idea che ti sei fatto di lui, perché non è la tua idea.
E, secondo me, imparare che cos’è la libertà, che cos’è l’affezione, vuol dire, appunto, passare attraverso questo. Ed è per tutti, per tutti!!!
Guardiamo gli attori di Hollywood: sono bellissimi; lui bellissimo sposa lei bellissima - che uno dice: “Capitasse a me…”; stanno insieme sei mesi e divorziano, poi prendono la droga, poi si suicidano, poi sono infelici. Cioè: sono come i Down, esattamente la stessa cosa. Se non si capisce questo, non si capisce la sostanza della vita. Si fa fatica perché noi pensiamo di essere come Dio.
Anche nella Costituzione Italiana, articolo 32, c’è scritto che la salute è un diritto : non sta né in cielo né in terra, perché se nasci storto puoi avere tutti i diritti che vuoi, ma sei sempre storto; o se ti succede qualcosa, puoi avere tutti i diritti, però ti è successo qualcosa che ti ha segnato. Quindi la salute non è un diritto, è un dono. Una volta l’evidenza del limite era più potente, perché – ad esempio - il contadino dipendeva dalla campagna, dal fatto se piovesse o ci fosse il sole, insomma dipendeva. Oggi, invece, si può crescere fino a 25 anni senza essersi mai posti seriamente il problema del limite della vita, dove la questione più grossa è: “Devo dare l’esame”; oppure: “Vorrei fare così, ma mio papà non me lo lascia fare”.

………………..L’uomo, al fondo, handicappato o non handicappato, cerca questo: lo scopo della vita . E su questo tutti siamo handicappati perché non ci arriveremo mai. Il massimo del raggiungimento, il massimo della vittoria, il massimo del potere, alla fine sono niente. …………………….La felicità non è l’assenza di contraddizioni, o di difficoltà, o di momenti di sofferenza. La felicità è la coscienza di un dono. La felicità è la coscienza di Qualcuno che ti vuole; tu alla vita non rinunci perché hai questo dono.
Immagina che ci sia un ragazzo che fa un lavoro brutto, come separare la pattumiera, per otto ore al giorno. Si innamora di una che, a un certo punto, gli dice “Sì”. Lui è felice. Non perché non c'è più contraddizione, ma perché c’è qualcuno che lo vuole. La felicità è Qualcuno che ti vuole.
Io penso che tu non possa dire che tuo figlio, con tutte le difficoltà che ha, sia infelice, perché se lui percepisce che tu lo vuoi, questa è la cosa più importante: questo lo tiene attaccato alla vita.

………….Il modo giusto di “togliere” il limite è quello di amare le persone limitate, quelli che portano questo limite. Il modo giusto di togliere il limite, come il modo giusto di fare tutte le cose, è innanzitutto accoglierlo. Se tu non lo accogli non è che lo togli, ma lo elimini, lo fai fuori, il che è diverso; e se lo si fa fuori, non lo si superera’ mai. Come dicevo prima, tutti i grandi progressi della medicina sono nati dall’accoglienza del limite, non dalla sua negazione perché se la medicina avesse continuato a ripetere che gli ammalati non esistono, oppure li avesse mandati nel lazzaretto, non li avrebbero mai osservati, quindi non li avrebbero mai toccati, curati. Come dici tu è giusto: per vincere questo limite, innanzitutto te lo devi prendere sulle spalle. E allora puoi andare avanti. C’è quel bellissimo film, “L’olio di Lorenzo”, dove si vede chiaramente che i genitori, per l’amore, per l’accoglienza al proprio bambino, hanno cercato, contro il parere di tutti gli altri, di trovare una cura. Se non accogli il limite, non è che lo annulli, ma semplicemente lo togli dalla tua visuale.

………………………..

Mai come dopo la nascita di Giovanni ho potuto toccare il mio limite. Giovanni violentemente mi ha mostrato che una cosa che fino al giorno prima mi sembrava la cosa piu’ immediata della mia vita non era così radicata in me. Mi ha mostrato che ero pieno di pregiudizi, di paure e non capivo, e a volte ancora non capisco, che quello che e’ avvenuto nella mia vita e’ per me una grazia. Mi ha mostrato che quello che mi e’ chiesto non e’ tanto accettare, ma abbracciare la presenza di Giovanni. L’abbraccio contiene tutto. Non lascia via niente: dolore, gioia, sofferenza, lacerazione, letizia. L’abbraccio accoglie l’altro. L’accettazione e’ quasi obbligatoria mentre l’abbraccio coinvolge la libertà, e’ vicino all’atteggiamento del SI di Maria. E’ in gioco la tua libertà e se ci stai ami la realtà che ti sta di fronte, insomma ti giochi fino in fondo.
Questo accento diverso lo ritengo molto importante per il mio cammino perchè ci ha
permesso di vivere questi anni non certo leggeri (Giovanni ha avuto 14 ricoveri in Ospedale) in modo lieto, godendo di tutti i progressi fatti e soprattutto felice per la sua presenza, affrontando le varie terapie non con quell’ accanimento che a volte si vede e tende a far raggiungere una quasi tra virgolette normalità. Questo abbraccio fa si che ciò che si fa per Giovanni sia fatto per dargli una possibilità in più, non per avere una immediata risposta, non alla ricerca di prestazioni.
Dentro l’abbraccio l’altro, il figlio, si sente accolto in tutta la sua interezza, sente il bene, si sente stimato . Attraverso questo abbraccio mi pongo non di fronte ad un figlio diverso “oggetto” della mia attenzione, del mio affetto, ma di fronte ad un soggetto .Che cosa significa ? Un ribaltamento totale. Penso che il figlio si senta abbracciato prima perchè e’ una persona e poi perchè e’ figlio, che comunica dei bisogni, che chiede delle attenzioni magari diverse perchè fa più fatica a raggiungere certe capacità.

Se non riesco a camminare, dammi la mano. Se non vedo bene gli oggetti che ho intorno,
spiegami, raccontami tu, impara insomma caro papà e cara mamma, a conoscermi meglio, a utilizzare altre strade se quelle che hai provato non mi raggiungono.

Questa e’ la parte interessante: porsi di fronte a un soggetto e non dare nulla per scontato.

\

:shock: :shock: :shock: Mi sa che sono stato troppo lungo e mi scuso per avervi tediato, forse sono uscito fuori tema, ma sentivo l'importanza di farvi leggere questi passaggi, perchè fanno parte di me. Taccio per sempre (per modo di dire) :evil:

elsy63
29-03-2006, 10:01
Mi associo ma non solo , mi sento letta e analizzta dentro per tanti pensieri difficili da esternaree sspiegare dai quali si capisce la provenienza dell'amore materno e genitoriael verso un figlio, al di la' delle sue condizioni.
Per quano riguarda alcune osservazioni fatte dal nostro ospite,devo dire che , forse per la non forte evidenza della sdd nei primi mesi di vita(per gli altri , per noi era chiara ed evidente dal primo attimo di vitA, quando mio marito la prese dalla mia pancia e l'avolse nel lenzuolino verde per vedersela velocemente strappare via dalla neonatologa, ma quanto gli invidio quel momento anch wese per lui l'ha capito subito e io il giorno dopo , con 15 ore di estasi in cui la guardavo e non me ne accorgevo, per poi cadere da molto piu' in alto di lui!!) , e anch eper il fatto che si decise di dirlo agli altri un po' piu' tardi , quando ci saremmo rasserenati, proprio per dirlo con lo spirito giusto e positivo necessari per una sua serena accoglienza, tutti i parenti stretti , inconsapevoli , si dimenavano a trovare somiglianze ognuno dalal propria parte! :D
Noi ci ridevamo pure sopra ma ci accorgevamo che in effetti, a parte la sdd , le somiglianze ci sono eccome. Basta guardarli bene, mi afigli anei momenti in cui non è stanca e quindi meno distonica anche con i muscoli del viso, ed è allegra e soridente somigli apazzamente al fratello maggiore.
POi , come scherzosamente dice mio marito , "eccola, mo' ha prorio quella faccia da down" quando si impunta, quando è molto stanca e assonnata , anche lo strabismo è piu evidente, quando fa i capricci o è triste, insomma quando è meno attiva! Ci sono delle foto in primo piano in cui stenti davvero ad accorgertene, altre invece spaventose,Ricordo che all'inizio le strappavo :eek: ricordo, ma succede ancora adesso, l'imbarazzo delle persone che al primo impatto la vedevano , si complimentavano con me per la bellezza, poi a poco a poco capivano e si scusavano anche! :oops: Io le rispondevo che li ringraziavo per averla trovata bella, e anche con la sdd tale rimaneva!Diciamo che alla fine dovevo risollevarli io dall'imbarazzo :!: Adesso , glielo dicono direttamente che è bella , dopo un attimo di osservazione diretta !E lei risponde "grazie del complimento!"Una volta pero' a una persona che un po rompeva con alcune domande "sperimentali"da repertorio : Signora , c'è qualche problema"?
Oppure mi sono sentita dire: Pero'( cioe' anche se è down) è una bambina bella e sveglia!!
Intanto trovo che la bellezza sia molto relativa e ce non è la variante principale che incide nella bnostra vita sociale ed affettiva, sia per i down che per i"normali2 , ci sono persone bellissime che magari sono sole, e persone molto lontane da questo canone che hanno una vita affettivae sentimentale appagante!
Alla stessa maniera vedo la bellezza e le somiglianze nei nostri figli,oltre anch ealla statura, al carattere ,in questo la mi asomiglia, purtroppo per me sempre al fratello maggiore :lol:, e ancora oggi , specialmente i nonni , si divertono a tirare l'acqua al loro mulino....
Spero che da mia suocera non prenda la statura :evil: .Lei ci scherza sopra"se viene bassa mica è la sdd, e' la mia famiglia che è bassa, in questo sara' colpa mia"! Pero' dalla parte del marito ci sono dei giganti , campioni di basket da 2 metri , posso sperarci no!
Concludo che logicamente , nei primi mesi di nascita, prendendo esempio dalla mia esperienza, i genitori sono impegnati al fronte , per tentare di salvar loro la vita, e spesso la stessa sdd, somiglianze, sesso (l loro, maschietto o femminuccia :!: ) bellezza passano in primo piano , perche' spesso oltre alla sdd si presenta qualche altro disturbo.
E in questo momento che veramnete ci si rende conto, che nonostante iln ostro bambino è"diverso", per noi è importante che viva, lo troviamo bellissimo, indifeso e bisognoso di tutte le cure possibili, per renderci conto piano piano del contrario:SIAMO NOI A SENTIRE IL BISOGNO DI LUI come membro della nostra famigliA.
Nel momento in cui ci viene portato via, e passa tre , quatto ore in sala operatoria, ti rendi conto di sentire il vuoto intorno e capisci della tua vita tutto quello che non hai capito in tanti anni.
Nella speranza che vi ho fatto capire quello che voleva dire. in un misto di pensieri tra il comico e il triste......con i quali ormai sto aimparando a conviverci ...
Elsy