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francesco
01-09-2008, 13:53
Vi invio la recensione, io non l'ho letto.
ciao a tutti, Francesco



L'arte della gioia di Goliarda Sapienza

- Se mi sposi ritorni in possesso delle terre, e con te al fianco potrei sfidare tutti. Sposami, tante prove ti ho dato in questi mesi.
Era vero, ma la sua giovinezza non era il mio futuro e non volevo terre. Solo per bisogno ci si sposa… Quelle prove non erano che le consuete corde di seta per legare, dopo, più saldamente. Lo percepivo dalla prepotenza delle sue mani che involontariamente quasi spezzavano i miei polsi. Non perdere l’equilibrio Modesta, non ascoltare il calore di quelle mani, fissalo negli occhi, dove già una prigione buia si disegna nel miele di ginestra del suo sguardo.

È sufficiente leggere le prime pagine de L’arte della gioia per renderci conto che il libro che abbiamo iniziato è qualcosa di speciale. Che la bambina che sta parlando - e che ascolteremo parlare per 500 pagine, lungo l’arco della sua vita - ha una personalità che si impone, che farà di lei un’eroina da romanzo di quelle che non si dimenticano, allineandosi accanto ad altre figure di donne che sono diventate dei miti dell’immaginario. Nonostante si chiami Modesta. Il cognome? Chi lo sa? Non certo lei che, quando qualcuno glielo chiede da adulta, risponde che ha visto suo padre una volta sola e non ha fatto a tempo a domandarglielo. Non dice, ma noi lo sappiamo dalle prime pagine, che la volta che ha incontrato suo padre, lui l’ha violentata. Aveva quattro o cinque anni. Dopo di quello, dopo l’incendio della casa e la morte della madre e della sorellina mongoloide, c’erano stati gli anni del convento. Ne era uscita per entrare nella casa e nella famiglia che sarebbe diventata la sua, prendendo il cognome dei Brandiforti. È una forza della natura, Modesta. Non si ferma davanti a nulla per ottenere quello che vuole, ovvero agi e ricchezza e sicurezza di vita. Dando qualche spinta alla sorte, magari anche accelerando la morte di qualcuno. Accettando, come fosse una martire, di sposare il principe che da sempre è stato relegato in stanze chiuse perché nato con la sindrome di Down. Anche sua sorella era così, lei non si impressiona di certo, vale la pena per diventare principessa. E un figlio, l’erede, lo può fare con qualcuno di aitante che le insegna l’amore. Perché Modesta vuole tutto, raccoglie a piene mani. Vuole l’amore e non fa differenza tra uomo o donna. Sarà sempre aperta ad ogni esperienza. Senza gelosia, incapace di comprendere l’ansia possessiva. Amori più o meno incestuosi. Da un certo punto del romanzo in poi c’è come un turbinio d’amore, e non solo intorno a Modesta, ma anche intorno a chi le sta vicino: la cognata, la balia, e i figli e i nipoti. Ma sarebbe errato pensare che L’arte della gioia si limiti ad essere un inno alla gioia dell’esistenza che trabocca di eros. Abbiamo detto che Modesta vuole tutto, e vuole anche idee, vuole sapere. L’irruenza del cuore di Modesta è pari a quella della sua mente: Modesta, che è nata insieme al secolo, il primo di gennaio del 1900, è una donna in anticipo sui suoi tempi. Una donna che non accetta che vi siano diversità tra i due sessi - non c’è niente che gli uomini possano fare e lei no. Amare, ma anche studiare (in un’epoca in cui non solo era considerato inutile, ma addirittura nocivo per una donna), cavalcare e andare in moto, sparare e nuotare, fumare la pipa e tagliarsi i capelli. Modesta passa ore sui libri, sacrifica ore di sonno. Romanzi e poesia, ma anche saggi. Calcolando gli anni sull’età di Modesta, e dal punto di vista decentrato della Sicilia, assistiamo alle vicende del ‘900: un poco sfuocata, vissuta attraverso i Brandiforti, la prima guerra mondiale, e poi il socialismo, l’attrattiva del primo fascismo spenta dalle azioni degli squadristi, ancora la guerra, l’arresto e il confino per Modesta. E lei, la principessa che per nascita sarebbe dovuta essere nessuno, passa a testa alta attraverso tutto. Ancora affascinante a sessant’anni, quando è già nonna da un pezzo. Ancora al centro della famiglia allargata. Ancora pronta a dare e a cogliere - anche un nuovo amore da assaporare con l’età. Goliarda Sapienza (nome dal fascino vecchio quanto quello della sua eroina) è morta prima di riuscire a vedere pubblicato il romanzo che le richiese dieci anni per la stesura. In Francia (dove il libro è stato pubblicato prima che in Italia) si è parlato di Modesta come della ‘Gattoparda’. C’è veramente qualcosa dell’atmosfera del romanzo di Lampedusa ne L’arte della gioia, anche se il livello di questo non è sempre uguale. L’inizio è travolgente, il fascino del personaggio non si smorza mai: ci conquista come pochi altri. La naturalezza con cui Goliarda Sapienza riesce a passare dalla prima alla terza persona narrativa rende inavvertito il cambiamento, e tuttavia ogni tanto ci stanchiamo del continuo dialogare, talvolta lo sforzo di comunicare tutto suona eccessivo e un poco didattico. Senza per questo sminuire il romanzo, che resta un grande romanzo con un grandioso personaggio.

Prime pagine

1.

Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo du*ro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno. Affondo nel fango fin sino alle caviglie ma devo tirare, non so perché, ma lo devo fare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com'è; non mi va di fare supposizioni o d'inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente. Dunque, trascinavo quel pezzo di legno; e dopo averlo nasco*no o abbandonato, entrai nel buco grande della parete, chiuso so*lo da un velo nero pieno di mosche. Mi trovo ora nel buio della stanza dove si dormiva, si mangiava pane e olive, pane e cipolla. Si cucinava solo la domenica. Mia madre con gli occhi dilatati dal silenzio cuce in un cantone. Non parla mai, mia madre. O urla, o tace. I capelli di velo nero pesante sono pieni di mosche. Mia sorella seduta in terra la fissa da due fessure buie seppellite nel gras*so. Tutta la vita, almeno quanto durò la loro vita, la seguì sempre fissandola a quel modo. E se mia madre - cosa rara - usciva, bi*sognava chiuderla nello stanzino del cesso, perché non voleva saperne di staccarsi da lei, E in quello stanzino urlava, si strappava i capelli, sbatteva la testa ai muri fino a che lei, mia madre, non tornava, la prendeva fra le braccia e l'accarezzava muta. Per anni l'avevo sentita urlare così senza badarci, sino al giorno che, stanca di trascinare quel legno, buttata in terra, avvertii a sen*tirla gridare come una dolcezza in tutto il corpo. Dolcezza che seguito si tramutò in brividi di piacere, tanto che piano piano, tutti i giorni cominciai a sperare che mia madre uscisse per poter ascoltare, l'orecchio alla porta dello stanzino, e godere di quegli urli. Quando accadeva, chiudevo gli occhi e immaginavo che si lacerasse la carne, si ferisse. E fu così che seguendo le mie mani spinte dagli urli scoprii, toccandomi là dove esce la pipì, che si prova*va un godimento più grande che a mangiare il pane fresco, la frutta. Mia madre diceva che mia sorella Tina; «La croce che Dio ci ha mandato giustamente per la cattiveria di tuo padre» aveva vent'anni; ma era alta come me, e cosi grassa che sembrava, se si fosse potuto levarle la testa, il baule sempre chiuso del nonno: «Anima dannata più di suo figlio,,.», che era stato marinaio. Che mestiere fosse questo del marinaio non riuscivo a capirlo. Tuzzu diceva che era gente che viveva sulle navi e andava per il mare... ma il mare che cos'era? Sembrava proprio la cassa del nonno Tina, e quando mi an*noiavo chiudevo gli occhi e le staccavo la testa, Se lei aveva vent'anni ed era femmina» tutte le femmine a vent'anni doveva*no sicuramente diventare come lei o come la mamma; per i maschi era diverso: Tuzzu era alto e non gli mancavano i denti come a Ti*na, li aveva forti e bianchi come il cielo d'estate quando ci si alza presto per fare il pane. E anche suo padre era come lui: robusto e coi denti che brillavano come quelli di Tuzzu quando rideva. Ri*deva sempre il padre di Tuzzu. La nostra mamma non rideva mai e anche questo perché era femmina, sicuramente. Ma anche se non rideva mai e non aveva denti, io speravo di diventare come lei; al*meno era alta e gli occhi erano grandi e dolci, e aveva i capelli ne*ri. Tina non aveva neanche quello: solo dei fili che la mamma al*largava col pettine cercando di coprire la cima di quell'uovo. I gridi sono cessati, sicuramente la mamma è tornata e fa tace*re Tina accarezzandola sulla testa. Chissà se anche la mamma ha scoperto che si può provare tanto piacere accarezzandosi in quel posto? E Tuzzu, chissà se lo sa Tuzzu? Deve essere a raccogliere le canne. II sole è alto. Io devo cercare e chiedergli di queste carezze e anche di questo mare devo chiedere. Ci sarà ancora?

© 2008, Giulio Einaudi

Goliarda Sapienza - L'arte della gioia
540 pag., 20 € – Edizioni Einaudi 2008 (Supercoralli)
ISBN 978-88-06-18946-4

L'autrice


Goliarda Sapienza (1924-1996) nacque a Catania da famiglia socialista rivoluzionaria. A partire dai sedici anni visse a Roma, dove studiò all'Accademia di Arte Drammatica. Negli anni Cinquanta e Sessanta recitò come attrice di teatro e di cinema lavorando, tra gli altri, con Luchino Visconti (in Senso), Alessandro Blasetti e Citto Maselli. Al suo primo romanzo, Lettera aperta (1967), seguirono Il filo di mezzogiorno (1969), L'Università di Rebibbia (1983), Le certezze del dubbio (1987) e, postumi, L'arte della gioia (Stampa Alternativa 1998 e Einaudi 2008) e i racconti Il destino coatto (2002).